L’argomento del panel di MIACinema riguarda il fenomeno del remake, dai grandi classici ai titoli più recenti, che in questi anni è aumentato a dismisura, così come i format derivativi, tanto che fra reboots, prequels e sequels forse si eguaglia la quantità di opere originali presenti sugli schermi.
Pensiamo al revival della sit-com Will & Grace, a L’inganno di Sofia Coppola, che rivisita La notte brava del soldato Jonathan di Don Siegel; o a Blade Runner 2049, uscito proprio oggi, sequel di un mito della cinematografia mondiale; o ancora all’attesissimo remake di IT di Stephen King, che vedremo fra due settimane, solo per citare dei successi annunciati.
Ma qual è il vero scopo del rifacimento di un film? È un modo di rendere omaggio a un film o romanzo di culto? O una semplice operazione di marketing? O un modo per allargare l’audience di una storia, sapendo che il pubblico ama quell’effetto di riconoscibilità e sorpresa che scaturisce da un remake?
Alcuni sostengono che il remake sia ormai abusato, e che il continuo riproporre storie e temi già esistenti sia un segno inconfutabile di una creatività sempre più spenta. La critica regge solamente se intendiamo il remake come sinonimo di “copiatura” e l’aggettivo “commerciale” in accezione meramente negativa. È evidente che gli interessi di mercato, specie nel campo audiovisivo, spesso prevaricano quelli artistici, ma questo non toglie che il valore artistico di un’opera prescinda dal suo tasso di originalità, e che in sé e per sé l’originalità non sia un valore. Come disse Gioacchino Rossini a un giovane compositore che gli porse i propri spartiti per conoscere il suo parere: “C’è del nuovo e c’è del bello. Ma ciò che è nuovo non è bello, e ciò che è bello non è nuovo”.
In ogni caso, la diffusione trasversale del fenomeno è indice del fatto che la pratica del remake riflette in pieno lo spirito del tempo, è uno dei pilastri del postmodernismo. L’intertestualità in letteratura, le cover per la musica, il remake di serie tv e film affondano le loro radici in un testo critico degli anni Sessanta, La letteratura dell’esaurimento di John Barth, che partiva da un’opera di Borges per codificare un concetto spesso frainteso: quell’esaurimento che rimanda non tanto al ripiegarsi su se stesso della creatività (peccato originale del postmoderno secondo i suoi detrattori), quanto piuttosto al tentativo di saturazione delle possibilità espressive della letteratura, come nel quasi coevo Tentativo d’esaurimento di un luogo parigino di Georges Perec.
In realtà il remake è una grande opportunità di sviluppo della creatività, una specie di traduzione, in quanto permette la circolazione di storie che hanno avuto successo nella loro madrepatria e dimostrano grandi potenzialità verso l’estero. Dopo aver fatto a lungo i gregari, negli ultimi tempi siamo diventati noi gli ispiratori, le matrici da prendere a modello, come per Perfetti Sconosciuti di Paolo Genovese, che a breve avrà un remake spagnolo girato da Alex De La Iglesia.