Il decreto del Governo “sul Cinema in Tv” è innanzitutto una sfida al cinema italiano, perché operi in modo più ambizioso.
Apprezzamenti e critiche, finora, si sono incentrati sulle quote di programmazione, le sanzioni, le responsabilità di broadcaster e fornitori di servizi non lineari (tv on demand, nuove piattaforme, grandi operatori globali). Ma questo schema di decreto legislativo – intitolato “Promozione delle opere europee e italiane da parte dei fornitori di servizi media audiovisivi”, che ora riceverà i pareri del Parlamento e del Consiglio di Stato – riguarda in modo cruciale le nostre industrie. Forse, è tempo di superare di slancio, in Europa, decenni di polemiche e diversità di interessi sulla cosiddetta “eccezione culturale” (la battaglia, in primo luogo francese, perché i prodotti creativi non vengano inseriti nei negoziati sul commercio, ma tutelati come un originale asset produttivo europeo). I radicali cambiamenti tecnologici, e lo spostamento disruptive di poteri su scala globale, infatti, potrebbero mettere d’accordo i tradizionali belligeranti del passato (produttori indipendenti, televisioni, autori, major) in favore di un’alleanza strategica per valorizzare e promuovere i nostri contenuti, le nostre industrie e posti di lavoro qualificati. Non a caso, per la prima volta, tutta la filiera si è trovata al fianco del governo italiano nel contrastare l’art. 2 della proposta di regolamento Ue SatCab, che depaupera le capacità e i diritti dei Paesi che hanno importanti industrie del cinema e dell’audiovisivo, e la competitività europea. Il Dl approvato dal governo Gentiloni su proposta del ministro Dario Franceschini vuole completare la Legge di sistema che lo stesso ministro della Cultura, con un ampio sostegno in Parlamento, ha varato durante il governo Renzi. Che si tiene su un concetto portante: cinema e audiovisivo operano come un settore produttivo integrato. Non ci dev’essere contrapposizione tra la dimensione autoriale, innovativa, o di ricerca, e quella industriale: senza la prima, si inaridisce l’industria; senza quest’ultima, resta marginale il rapporto col pubblico. Dopo decenni in cui si è comunque polemizzato per i film “assistiti”, o per il sostegno ai film “di cassetta”, è tempo di comprendere che l’orizzonte è completamente cambiato. Dobbiamo riuscirvi, se vogliamo promuovere un’Italia e un’Europa non solo consumatrici di beni incorporati nelle nuove piattaforme. C’è spazio per tutti, ma solo se sapremo innovare. Non ci troviamo più davanti alla contrapposizione tra chi vuole far parte di mercati aperti e chi difende impossibili autarchie. Libertà e prosperità hanno assoluto bisogno di attori industriali forti, capaci di cercare gli spettatori dovunque si trovino. E i fiumi di contenuti che entrano nelle sale cinematografiche (stazionarie per biglietti venduti), nell’home video (in calo) e nello streaming nelle diverse piattaforme (in crescita) richiederanno certamente sia espressioni di qualità – e segmenti importanti per pubblici “di nicchia”- che produzioni impegnative per budget, e capaci di rivolgersi a mercati internazionali, non solo domestici. Questo comporta investimenti. Non spesa assistenziale – salvo si insista nel sostenere che si tratti di questo – ma investimenti produttivi per settori tra i più strategici. Investimenti pubblici (c’è un miglioramento), investimenti delle reti televisive, investimenti degli operatori on demand, investimenti su nuove generazioni di creativi e tecnici italiani. Tutti conoscono – e a parole apprezzano – il valore formativo, simbolico, promozionale del cinema, innanzitutto per il nostro Paese. Il cinema nelle sale è considerato da alcuni come un’attività in crisi. In realtà, il cinema italiano fa i conti con due problemi: una fase di transizione, una ricerca di identità di prodotto (evidente in questo periodo), e il cambiamento delle esperienze di fruizione dei film. Pochi ricordano, tuttavia, il fenomeno enorme attivato dalle industrie cinematografiche: la visione di oltre 15 milioni di film ogni giorno. Tra sale, noleggio, acquisto, download, pay tv, tv generaliste, canali digitali free si registrano – ripeto- almeno quindici milioni di visioni quotidiane in Italia. Quanto alle sale, i numeri sono lì: i nostri cinema staccano 4 volte i biglietti di tutte le manifestazioni sportive italiane (inclusa la Serie A di calcio), e nettamente più biglietti di tutti i settori dello spettacolo, della musica, della cultura, dello sport messi assieme. Se vediamo i successi nelle sale dei film per bambini, ci rendiamo conto anche del valore aggregante, per le nostre famiglie e le giovanissime generazioni, dell’esperienza in sala. La Francia è stata a lungo considerata un parametro positivo per la promozione di queste industrie. I risultati sono evidenti: nelle sale francesi, si stacca il doppio dei biglietti, e si vede molto più del doppio di film di produzione nazionale, rispetto all’Italia. La pur importante assegnazione a cinema e audiovisivo, di almeno 400 milioni annui attraverso la nuova Legge Franceschini, vale appena la metà delle risorse assegnate in Francia dal solo Cnc, Centre National de Cinématographie (784,5 milioni nel 2016). Personalmente ricordo la fatica, come ministro della Cultura, per recuperare nel triennio 2006-2008 le risorse del Fondo spettacolo (con un incremento complessivo di 414 milioni) che erano state tagliate drasticamente, e per introdurre criteri automatici di finanziamento (tax credit). Questo rimane il punto: il sostegno a cinema e audiovisivo è un costo, o un investimento? Regno Unito, Paesi nordici, Israele, hanno visto crescere questi comparti grazie a investimenti importanti e regole chiare. Dobbiamo puntare non alla moltiplicazione delle opere, ma alla crescita del loro valore produttivo, così accrescendo il fatturato e l’occupazione, dando prospettive nuove alle generazioni creative, ai mestieri e alle professioni qualificate dell’audiovisivo. Nessuno deve “punire” i broadcaster, e si potranno trovare i più giusti punti di equilibrio, anche attraverso strategie comuni. Nessuno chiude la porta a Netflix, Amazon, TimVision, Google, Apple, Facebook, magari Snapchat, ed è giusta la norma che richiede a queste piattaforme anche di produrre in Italia e per il nostro mercato. Nessuno, soprattutto, pensa che si debbano imporre film brutti in orario di massimo ascolto televisivo. I nostri produttori e registi saranno finalmente sfidati a realizzare opere importanti capaci di appassionare e convincere il pubblico, anziché ad assecondare un percorso verso nicchie confortevoli e protette. Se collaboreremo tutti, sarà un’operazione winwin, in cui tutti possono vincere.
Francesco Rutelli, Il Sole 24 Ore