Si è tenuta ieri la conversazione con Michael Apted, regista e produttore inglese ospite al MIA per un Panel a lui dedicato. La conversazione, moderata da Marco Spagnoli, si è concentrata sulla sua lunga carriera. Una carriera ricca di successi, dalla regia di film di spionaggio e fantasy (“Il mondo non basta” della serie 007, Narnia – Il viaggio del veliero), alla parallela e prestigiosa carriera da documentarista.
Non a caso Apted è stato inserito nella lista dei migliori documentaristi del mondo. Il suo progetto più ambizioso è stato Up, una serie di documentari che ha diretto dal 1972 in cui intervista quattordici bambini di 7 anni ciascuno, provenienti dagli ambienti sociali più diversi, ripresi ogni sette anni a seguire per ottenere un’immagine precisa dell’evoluzione della popolazione inglese sul finire del ventesimo secolo. “Up Series va avanti da circa 50 anni – ha detto il regista inglese – era un idea brillante nata a Manchester negli anni 70. Ci siamo detti “perché non intervistiamo dei bambini di 7 anni ‘”, ed e stato sorprendente vedere come diversamente vivevano, crescevano e in che modo erano educati”.
Insieme ai protagonisti è cresciuto anche Apted, sia come persona che come regista: “La più grande cosa che ho imparato è stato ascoltarli invece di fargli domande. Mi ci sono voluti venticinque anni per capirlo, ma così loro hanno potuto rivelare da sé le cose che ritenevano importanti delle loro personalità”. Il regista inglese è intervenuto ad un Panel di MIA|DOC, la sezione di MIA dedicata ai documentari italiani e internazionali. Apted ha sottolineato l’importanza di questo genere cinematografico: “i documentari possono essere rivelatori come un film. Penso che si possa comprendere la condizione umana attraverso un buon documentario”.
Michael Apted ritiene così importante questo genere da considerare i documentari Up come il suo lascito al mondo, come ha spiegato a Marco Spagnoli alla platea del Cinema Quattro Fontane: “Quando ho cominciato la serie Up sapevo che le cose sarebbero cambiate e questo mi ha spinto a proseguire. Ho sempre saputo che questo sarebbe stato il mio capolavoro. Che se anche avessi tralasciato qualche film in America per questo documentario, sarebbe stato uno scambio equo”.